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Dislessia

Per le persone che non si stimano, il successo vale zero, l’insuccesso vale doppio. (Giorgio Nardone)

Dislessia: Premessa

La dislessia è un disturbo che ostacola il normale processo d’interpretazione dei segni grafici con cui si rappresentano per iscritto le parole, è essenzialmente un difetto di automatizzazione dei processi di decodifica che si esprime principalmente in due modi: o attraverso lentezza nel riconoscimento delle lettere e nel processo di conversione in fonemi, o attraverso gli errori di decifrazione.

Viene definita come un “deficit di sviluppo” che ha origine da alterazioni di natura neurobiologica non rientrante in un quadro psicopatologico.

Alcuni bambini leggono male, ma comprendono ciò che leggono. Questo può creare una confusione che necessita di precisazioni. Anzitutto va chiarito cosa s’intende per lettura.

Con il termine “lettura” si intende un’attività che consente di comprendere il contenuto di un testo scritto. Questa attività è il risultato di una serie di processi molto complessi che comprendono:

  • il riconoscimento dei segni dell’ortografia;
  • la conoscenza delle regole di conversione dei segni grafici in suono;
  • la ricostruzione delle “sequenze di suoni” in parole del lessico;
  • la comprensione del significato delle singole frasi e del testo;

La dislessia interessa solo alcuni di questi processi, in particolare i primi tre, mentre non riguarda la fase di comprensione di una frase o di un testo.

I primi tre processi vengono considerati come le fasi di un’unica attività, chiamata attività di “decodifica” o “transcodifica”, in quanto consente di trasformare il codice scritto in codice orale, quello che usiamo per esprimerci verbalmente.

Nel lettore esperto è molto difficile distinguere l’attività di decodifica dal processo di comprensione, poiché, quando un individuo legge un testo ha l’impressione di accedere direttamente al significato.

L’importanza di questo processo viene messa in evidenza proprio dal dislessico, cioè dal soggetto che presenta difficoltà nelle attività di decodifica, nell’attività di trasformazione dei segni dell’ortografia in suoni (che hanno un significato), concerne quindi il processo d’interpretazione dei degni dell’ortografia.

Dopo questa premessa è importante sottolineare che non è esatto definire dislessico qualunque bambino che non impara a leggere, solo una piccola percentuale è dislessica. Un bambino, infatti, potrebbe avere difficoltà a imparare il processo di transcodifica per motivi diversi, che non sono necessariamente legati a una peculiarità delle strutture cerebrali coinvolte nei processi di elaborazione dell’ortografia.

Per esempio, il bambino affetto da sordità non impara le corrispondenze suono-segno perché ha difficoltà a percepire i suoni della lingua. Oppure un bambino che presenta un deficit intellettivo potrebbe imparare le corrispondenze tra segni e suoni, ma non essere in grado di riconoscere le parole a causa di un lessico insufficiente, oppure perché non riesce a compiere in modo adeguato la fusione dei suoni.

Altri bambini, invece, arrivano alla scuola elementare con lacune nell’area percettiva da attribuire al non uso o al cattivo uso delle abilità di base: poco movimento, impacci psicomotori, scarsa attitudine al ritmo, alla segmentazione della parola in sillabe, limitata competenza linguistica di origine socioambientale, insufficiente attitudine all’analisi del linguaggio e al suo uso, carenza di stimolazioni. Inoltre potrebbero esserci bambini culturalmente deprivati con difficoltà nella lettura.

Cos’è la dislessia?

La definizione più recente, approvata dall’International Dyslexia Association è la seguente:

“La dislessia è una disabilità dell’apprendimento di origine neurobiologica. Essa è caratterizzata dalla difficoltà a effettuare una lettura accurata e/o fluente e da scarse abilità nella scrittura (ortografia). Queste difficoltà derivano tipicamente da un deficit nella componente fonologica del linguaggio, che è spesso inatteso in rapporto alle altre abilità cognitive e alla garanzia di una adeguata istruzione scolastica. Conseguenze secondarie possono includere i problemi di comprensione nella lettura e una ridotta pratica nella lettura che può impedire una crescita del vocabolario e della conoscenza generale”.

Anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità classifica la dislessia e gli altri disturbi specifici di apprendimento come disabilità per cui non è possibile apprendere la lettura, la scrittura o il calcolo aritmetico nei normali tempi e con i normali metodi di insegnamento.

Ma perché si parla di disturbo?

In realtà, numerosi studi hanno rilevato che le difficoltà nell’acquisizione e nella stabilizzazione di alcuni processi di identificazione e di scrittura delle parole e dei numeri derivano da una disfunzionalità nell’organizzazione dell’attività fra le varie aree cerebrali.

I Disturbi Specifici dell’Apprendimento, quindi, possono essere ricondotti ad una base biologica e alla natura costituzionale del soggetto e proprio per questo tendono a persistere nel tempo. La rieducazione o l’intervento didattico, perciò, non possono far scomparire il problema, ma devono porsi quale obiettivo l’insegnamento di strategie utili a migliorare le prestazioni scolastiche dell’alunno apportando delle modifiche nella didattica o semplici correzioni del nostro abituale comportamento.

Perché tali disturbi sono definiti specifici?

Nella dicitura “Disturbo Specifico dell’Apprendimento”, l’aggettivo specifico si riferisce a quell’aspetto settoriale del funzionamento deficitario in un contesto globale indenne. Ciò significa che un Disturbo Specifico dell’Apprendimento si manifesta in un soggetto privo di deficit neurologici (quali afasie, epilessia, ecc.), privo di deficit sensoriali (quali ipoacusie e disturbi visivi), privo di disturbi relazionali primari e privo di disturbi cognitivi (il dislessico, infatti, presenta sempre un Q.I. nella norma o addirittura al di sopra di essa).

Proprio la presenza di un buon Q.I. fa sì che non sirena necessaria la presenza di un insegnante di sostegno in tutti i casi: a mio parere sarebbe opportuno che l’insegnante di sostegno ci fosse nei casi in cui la prestazione del bambino fosse di gran lunga inferiore rispetto a quella di compagni di pari età cronologica (si pensi ad un alunno di scuola media che ha un livello pari ad un alunno di 3° elementare) e, ovviamente, sempre tenendo conto di quelli che sono i risvolti psicologici di una scelta simile.

Il Disturbo Specifico dell’Apprendimento, inoltre, si manifesta in presenza di pari opportunità scolastiche ed educative, ma anche in presenza di un contesto familiare idoneo e ricco di stimolazioni.

In che senso si parla di Apprendimento deficitario? Cosa si intende per apprendimento?

Il termine apprendimento evoca un insieme più o meno formalizzato di nozioni e conoscenze esplicite.

Tra gli apprendimenti di base, che si sviluppano nel corso del primo anno di scolarizzazione, vi sono, ovviamente, la lettura, la scrittura e il calcolo.

Qualora tali apprendimenti di base non risultino pienamente acquisiti, ed il bambino presenti le caratteristiche prima citate, si parla, dunque, di Disturbo Specifico d’Apprendimento.

Esistono più forme di dislessie?

Una prima distinzione viene fatta tra dislessia acquisita e dislessia evolutiva. Questa distinzione concerne “l’epoca” in cui insorge il disturbo di interpretazione dell’ortografia.

Nel caso della dislessia acquisita un soggetto che è in grado di leggere normalmente inizia a compiere errori oppure non riesce più a riconoscere le parole con la stessa facilità. Di solito queste difficoltà di decodifica sono la conseguenza di qualche evento patologico che ha determinato lesioni nelle aree corticali che sono coinvolte nel processo di decodifica.

La dislessia evolutiva si manifesta invece dall’inizio del processo di apprendimento della lettura. Il bambino mostra subito difficoltà a riconoscere le lettere dell’alfabeto, a fissare le corrispondenze fra segni grafici e suoni, e ad automatizzarle, cioè a compierle in modo rapido e senza sforzo apparente.

Inoltre la dislessia non ha la stessa prevalenza sulla popolazione generale nei diversi paesi. Esistono differenze anche molto marcate. In Italia i dati ufficiali parlano del 3,5%, mentre negli Stati Uniti del 7,4%. Il dato potrebbe sembrare in contraddizione con l’affermazione che il disturbo ha basi neurobiologiche, e dunque dovrebbe in teoria essere uniformemente distribuito. Invece, come ogni forma di disabilità, la manifestazione è il risultato dell’interazione fra la predisposizione neurobiologica e l’ambiente (in questo caso il sistema ortografico).

In Italia la dislessia è molto meno frequente che nei paesi anglosassoni, perché l’italiano ha un’ortografia regolare; l’inglese, invece, ha un’ortografia molto irregolare.

Caratteristiche e errori tipici

Per un dislessico, l’impatto iniziale con il sistema scritto è molto difficile, in quanto la lettura di una parola, che noi concepiamo come un compito unico e semplice, in realtà è il risultato di tante singole attività che devono essere affrontate simultaneamente o comunque integrate in rapida successione: identificazione delle lettere, riconoscimento del valore sonoro convenzionale, mantenimento della sequenza di presentazione, rappresentazione fonologica delle parole, coinvolgimento del lessico per il riconoscimento del significato.

Nel dislessico la difficoltà può presentarsi solo in una di queste attività o anche in più di una e altresì appare evidente come la sua capacità di lettura e scrittura risulta significativamente inferiore rispetto alla sua vivacità intellettiva.

Nel leggere, il bambino dislessico, compie elisioni, sostituzioni, inversioni di fonemi ( “in” diventa “ni”; “il” diventa “li” ), confonde i suoni omologhi.

Nello specifico, le difficoltà del dislessico sono legate a problemi specifici di automatizzazione e velocizzazione del processo di lettura. Il soggetto non trova difficoltà particolarmente gravi nel linguaggio orale, ma nei compiti legati alla lingua scritta, sia relativi alla decodifica, sia relativi alla comprensione e all’espressione.

I dislessici dimostrano una particolare lentezza nella ricostruzione dei significati, a mano a mano che aumenta la complessità e la lunghezza del brano da leggere. Solo se guidati riescono a cogliere il valore e gli scopi del linguaggio come mezzo di comunicazione di idee diverse, poiché mancano loro le capacità di cogliere il significato della parola indipendentemente dal contesto in cui è inserita.

Gli errori che si riscontrano più di frequente nella scrittura del bambino dislessico sono i seguenti:

  • confusione tra le consonanti costituite dagli stessi elementi strutturali, ma con diverso orientamento (a,o,s,c,gl,gh) o con strutture diverse ma con analogie sonore (f/v, d/t, p/b, c/g, s/z)
  • inversioni dell’orientamento di lettere di una sillaba o di più sillabe in una parola (la-al; li-il; per-pre)
  • elisioni letterali o sillabiche effettuate all’inizio o alla fine della parola (pomeriggio-pomeriggi; porta-pota; pane-pne)
  • sillaba ripetuta più volte in una parola (nascondono-nascondonono; caricare-caricacare; mangiato-mangiangiato)
  • assimilazione della parola precedente o seguente, assimilazione dell’articolo al nome (il sole-ilsole; sul prato- sul prato)
  • divisione della parola in più frammenti o sillabe (andiamo: an/dia/mo)
  • la grafia può essere irregolare.

Cause

Le cause della dislessia non sono ancora chiare e il dibattito fra specialisti del settore è ancora aperto. Un’ipotesi, sostenuta da ricerche recenti, parla di fattori genetici : si è notato infatti che la frequenza del disturbo riguarda più i maschi che le femmine e che vi sono spesso casi di familiarità (cugini, zii, gemelli omozigoti ecc.). La dislessia diviene parte del corredo genetico del bambino, trasmissibile per via ereditaria, come il colore degli occhi, i lineamenti del viso, la tendenza all’obesità, alla longilineità, alla timidezza o all’aggressività.

Le cause organiche purtroppo non sono ancora completamente note e diverse sono le ipotesi che sono state avanzate:

una prima teoria, probabilmente la più nota, è quella della “disconnessione funzionale” (o connessione disturbata) fra i centri cerebrali deputati alla decodifica della lettura (Geschwind, 1965; Marshall, 1983); tra le varie articolazione di questa teoria, quella fonologica (deficit del processamento fonologico) sembra essere quella più accreditata da un punto di vista delle attuali evidenze scientifiche (Frith, 2002); essa descrive la dislessia come una difficoltà dei ragazzi dislessici a manipolare i suoni rispetto ai non dislessici (ad esempio di effettuare la compitazione, lo spelling delle parole) e nel passare dal codice visivo a quello uditivo e viceversa;

una seconda teoria è quella che parla della difficoltà di inibire gli stimoli visivi e orientare l’attenzione in modo selettivo da sinistra a destra: il ragazzo dislessico avrebbe un campo visivo attentivo troppo ampio e quindi gli stimoli periferici andrebbero ad interferire con la discriminazione visiva creando un problema di affollamento di stimoli (crowding). Sembra che i lettori dislessici percepiscano in modo meno chiaro rispetto agli altri lettori gli stimoli che si allontanano leggermente dalla fovea, viceversa percepiscano troppo distintamente gli stimoli alla periferia del campo visivo, che creerebbero in questo modo un affollamento di stimoli, rendendo confusa la discriminazione visiva (Geiger e Lettvin, 1999). Il bambino dislessico discriminerebbe peggio di un buon lettore, perché non sarebbe in grado di inibire gli stimoli periferici (disturbi magnocellulari, Cestnick e Coltheart, 1999);

una terza teoria ipotizza una mielinizzazione (ricopertura delle cellule nervose) incompleta che non permette un’attenzione focalizzata verso gli stimoli visivi e una conseguente difficoltà di discriminazione e decodifica degli stimoli visivi che stanno alla base della lettura (Bakker, 1998).

Un secondo approccio, quello psicoanalitico, ha cercato di individuare le cause della dislessia in un rifiuto delle separazione dalle figure genitoriali, che l’entrata nella scuola presuppone e da quest’ottica ha proposto interventi di psicoterapia miranti a superare le difficoltà di letto-scrittura.

Tale prospettiva però non spiegava alcune variabili ridondanti : il fatto che il numero dei maschi che presentano tale disturbo sia significativamente superiore a quello delle femmine, il fatto che spesso sia stata segnalata una pregressa difficoltà di linguaggio, l’incidenza di un 60% dei casi che hanno un familiare che presenta lo stesso disturbo.

Giacomo Stella, noto esperto di dislessia in Italia, ha proposto una idea innovativa che ha notevolmente influenzato l’approccio al problema: egli ha dichiarato che la dislessia non è una malattia, e che dalla dislessia non si guarisce.

Questo ha fatto propendere per una ipotesi di base biologica del disturbo, ipotesi che sembrerebbe spiegare le variabili che la psicoanalisi nonriusciva a giustificare. L’orientamento che prevale oggi dice che si nasca, vive e muore dislessici, anche se con una grande variabilità individuale nell’evoluzione del disturbo: alcuni adulti conservano una marcata dislessia, altri (definiti compensatori) evitano di esporsi in situazioni pubbliche e utilizzano con successo strategia alternative alla lettoscrittura, altri ancora (definiti in ricerche in paese anglofobi “recovered” ), hanno recuperato ed il disturbo compare soltanto in casi di affaticamento o in situazioni in cui sono fortemente disturbati o confusi.

Generalmente alcuni segnali che possono permanere sono difficoltà a leggere l’orologio, a contegiare i resti, a ricordare la sequenza dei mesi dell’anno: a buona capacità cognitive accompagnano difficoltà procedurali e, a volte, una certa goffaggine nei movimenti e difficoltà di motilità fine. Spesso solo un accurato esame neuropsicologico può ancora identificarli come dislessici.

Conseguenze

Lo sviluppo delle conoscenze scientifiche ha permesso di stabilire che la dislessia è una caratteristica costituzionale, determinata biologicamente e non dovuta a problemi psicologici o di disagio socio-culturale. E’ facile comprendere come in una cultura come la nostra, così fortemente legata alla scrittura, questo problema incida pesantemente condizionando la vita scolastica e in seguito la vita professionale.

I dislessici, infatti, non hanno “problemi d’intelligenza”, né problemi di socializzazione, almeno fino al momento in cui il confronto scolastico con i coetanei non li determina.

Molti di questi ragazzi non sono riconosciuti come dislessici e non ottengono alcuna facilitazione o adattamento della didattica che permetta loro di avere opportunità di apprendimento.

Quasi sempre, i risultati insoddisfacenti in ambito scolastico vengono attribuiti allo scarso impegno, al disinteresse verso le varie attività, alla distrazione. Questi alunni, oltre a sostenere il peso della propria incapacità, se ne sentono anche responsabili e colpevoli. Il soggetto con disturbo di apprendimento vive quindi il proprio problema a tutto tondo e ne rimane imprigionato fino a che non si fa chiarezza, fino a che non viene elaborata una diagnosi accurata che permette finalmente di scoprire le carte.

Il mancato riconoscimento della dislessia ha importanti conseguenze psicologiche, determina spesso l’abbandono della scuola e talvolta un futuro professionale di basso livello nonostante le potenzialità di creatività e di intelligenza che questi ragazzi manifestano; inoltre influisce negativamente sullo sviluppo della personalità e compromette un adattamento sociale equilibrato.

L’insuccesso prolungato genera frustrazione, inadeguatezza, scarsa autostima; dalla mancanza di fiducia nelle proprie possibilità scaturisce un disagio psicologico che, nel tempo, può strutturarsi e dare origine ad una elevata demotivazione all’apprendimento e a manifestazioni emotivo – affettive particolari quali la forte inibizione, l’aggressività, gli atteggiamenti istrionici di disturbo alla classe e, in alcuni casi, la depressione. Questo disagio può tradursi in disturbi di comportamento, atteggiamenti di disinteresse da tutto ciò che può richiedere impegno, chiusura in se stessi.

Trovandosi di fronte alla sua difficoltà d’apprendimento le reazioni possono essere varie: il progresso compensatorio sugli altri piani; l’estensione del blocco alla scrittura e al linguaggio; la generalizzazione del blocco a tutte le materie; la ricerca di compensazioni per l’insuccesso intellettuale. Il dislessico è generalmente un bambino dotato di un’intelligenza vivace e curiosa che si esprime con disinvoltura usando un linguaggio ben strutturato. Cambia completamente atteggiamento di fronte a un testo scritto: si agita, è pervaso da uno stato d’ansia, diviene insicuro.

La sfiducia in sé accentua le difficoltà di comprensione e nello stesso tempo lo distacca dal proprio gruppo classe. E’ un circolo vizioso: si crede poco intelligente, perde autostima, si impegna meno e riesce sempre peggio.

Legislazione

Il problema della tutela dei diritti di chi è dislessico è particolarmente complesso e aperto a diverse soluzioni. Attualmente non esiste una normativa specifica e l’Associazione italiana dislessia ha presentato una serie di proposte normative che regolino le richieste da parte della scuola nei confronti degli alunni dislessici, ne stabilisca i limiti e definisca le facilitazioni possibili.

All’interno della legislazione attuale è comunque possibile fare riferimento ad alcuni articoli:

Legge n. 517/77 art. 2 – scuola elementare: attività organizzate per gruppi di alunni della stessa classe o di classi diverse;

Legge n. 517/77 art. 7 – scuola media: attività scolastiche periodiche in sostituzione delle normali attività per un massimo di 160 ore all’inizio o alla fine dell’anno, secondo un programma di iniziative di integrazione e di sostegno indicato dal Consiglio d’Istituto e dai consigli di classe;

Legge n. 59/97 art. 21: autonomia didattica finalizzata al diritto di apprendere, D.P.R n. 275/99: si riconoscono e valorizzano le diversità, si promuovono le potenzialità di ciascuno, si adottano tutte le iniziative utili al raggiungimento del successo formativo; si regolano i tempi dell’insegnamento e dello svolgimento delle discipline nel modo più adeguato ai ritmi di apprendimento, utilizzando forme di flessibilità come i percorsi individualizzati; iniziative di recupero e di sostegno;

Legge n. 104/92 art. 13 -integrazione scolastica: l’integrazione scolastica si realizza anche attraverso la dotazione di attrezzature tecniche e sussidi didattici;

Legge 104/92 – valutazione del rendimento e prove d’esame: l’Ordinanza Ministeriale che annualmente regola scrutini ed esami prevede condizioni particolari solo per alunni certificati ai sensi della Legge 104/92.

Per la scuola secondaria superiore esiste la possibilità di effettuare corsi di recupero per gli alunni che ne abbiano bisogno, ma gli insegnanti non sono obbligati a effettuarli, la scuola non è obbligata a organizzarli e gli studenti non sono obbligati a frequentarli. In caso di bocciatura, la scuola deve però dimostrare di aver progettato interventi di recupero.

Inoltre, esiste una proposta di legge per riconoscere la dislessia in modo sistematico e regolamentato come disabilità effettiva. Questo avviene già in molti altri stati della Comunità Europea. Ciò permetterà ai dislessici certificati di avvalersi di metodi alternativi di avvicinamento al sapere che non passino dal testo scritto.

La proposta di legge, avanzata dal deputato De Fabris l’8 maggio 2006, mira a riconoscere la dislessia, la disgrazia e la discalculia quali difficoltà di apprendimento (DSA) e prevede che il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca individui con decreto una serie di misure educative e didattiche atte a garantire i necessari supporti agli alunni con tali difficoltà in modo da ottenere una formazione adeguata degli stessi e prevenirne l’insuccesso scolastico.

I bambini dislessici hanno diritto ad una diagnosi specialistica, che accerti quantità e qualità del disturbo, i punti forti accanto a quelli deboli. La diagnosi va fatta da uno specialista qualificato e deve essere il più possibile precoce. Le misure di supporto si collocano , sul piano umano-relazionale e a livello educativo e didattico, in stretto rapporto con le differenze specifiche di ogni alunno dislessico.

All’interno della proposta ci sono molti suggerimenti utili a livello didattico:

  • Occorre coltivare negli alunni una struttura positiva di apprendimento, aiutandoli a porsi in situazioni di benessere, cercando di prevenire il fallimento scolastico ed esistenziale.
  • Sono indispensabili serenità, fiducia, solidarietà, per non aggiungere frustrazioni alle difficoltà oggettive.

Il sostegno alla stima di sé, base per ogni impegno , si raggiunge strutturando l’insegnamento in modo tale che tutti possano raggiungere risultati validi; non si tratta di abbassare il livello di difficoltà, ma di concentrare il lavoro sull’essenziale, di concedere modalità idonee di gestione dei codici scritti, di considerare i diversi stili di apprendimento (ad esempio, l’impostazione multisensoriale con uso sistematico dei solidi in geometria) , di gratificare per gli sforzi compiuti e non solo per i risultati.

Alcuni interventi di supporto sono individuali, altri possono essere organizzati in piccoli gruppi, con i compagni o sono da rivolgere a tutta la classe : rapporto umano costruttivo, training per riconoscere il proprio stile di apprendimento, orientamento, perseguimento di obiettivi ai livelli più elevati delle tassonomie, esercizi di rilassamento e di concentrazione, iniziative di personalizzazione dell’insegnamento.

Da escludere con ogni cura sono minacce e richiami ossessivi all’impegno sia perché rendono insopportabile e ingestibile l’ansia che accompagna sempre il lavoro dei dislessici, non solo al momento delle prove di verifica, sia soprattutto perché non esistono forme di impegno che possano modificare realtà costituzionali come la dislessia.

La dislessia è una realtà permanente non scompare con l’età, ma le conseguenze che comporta nell’apprendimento possono non essere negative se si attuano misure educative e didattiche idonee.

Recenti ricerche

Alcuni ricercatori della Scuola di Medicina dell’Università di Yale hanno identificato un gene sul cromosoma umano 6, chiamato DCDC2, che sarebbe associato alla dislessia, un disturbo della lettura che colpisce milioni di bambini e di adulti. Gli scienziati hanno scoperto che una mutazione genetica di DCDC2 conduce a un difetto nella formazione dei circuiti cerebrali che rendono possibile la lettura. L’alterazione genetica sarebbe ereditaria.

Il principale autore della ricerca, Jeffrey R.Gruen, ritiene che questi risultati, se confermati, potrebbero portare ad una migliore diagnostica per identificare la dislessia e potrebbero portare ad una migliore comprensione del funzionamento a livello molecolare della lettura. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences. La ricerca si basa su un campionamento statistico effettuato su 153 famiglie dislessiche.

Le prove statistiche dimostrerebbero che circa il 20% dei casi di dislessia è dovuto all’alterazione nel gene DCDC2. L’alterazione genetica su questo cromosoma corrisponde alla cancellazione di una regione regolatrice. Lo stesso gene è responsabile, nei centri della lettura del cervello, della modulazione della migrazione di neuroni. Questa architettura cerebrale è necessaria per leggere normalmente.

Guinevere Eden e Thomas Zeffiro, codirettori del Georgetown Center for the Study of Learning, hanno presentato all’annuale incontro dell’American Association for the Advancement of Science (Aaas). Secondo i risultati di questo studio la risonanza magnetica potrebbe in futuro aiutarci a identificare precocemente la persone dislessiche. I ricercatori avrebbero infatti scoperto che una determinata area del cervello, la corteccia temporo-parietale sinistra, è coinvolta sia nella lettura, che in alcune prestazioni visive e che nei dilessici questa porzione cerebrale può non funzionare nel modo più appropriato.

In un secondo studio, Eden e Zeffiro, in collaborazione con Frank Wood e Lynn Flowers, della Wake Forest University Medical Center a Bowman Gray in North Carolina, hanno evidenziato che con un programma adeguato si può migliorare nella lettura, modificando al contempo l’attività neurale. La risonanza magnetica rivela infatti un significativo incremento nell’area corrispondente nell’emisfero destro. I due scienziati concludono avvertendo che probabilmente non tutti i dislessici hanno lo stesso problema a livello cerebrale e augurandosi che, in un prossimo futuro, la risonanza magnetica permetterà di “illuminare” le aree coinvolte nei diversi deficit relativi alla dislessia.

Alcuni ricercatori di Stoccolma hanno individuato il gene della dislessia : DYX1C1, studiando alcune famiglie finlandesi in cui la malattia è ricorrente. La scoperta conferma che c’è una predisposizione familiare alla dislessia. Oltre alla genetica, però, altre cause non ancora chiare potrebbero essere all’origine della dislessia.

Quali che siano le cause, il risultato è che il cervello dei dislessici funziona un po’ diversamente da quello degli altri.

Studi condotti con la risonanza magnetica funzionale e con la tomografia a emissione di positroni (PET) hanno permesso di stabilire che, durante la lettura, nel cervello dei dislessici si attivano zone diverse rispetto a quelle che si accendono nel sistema nervoso dei bambini che leggono senza difficoltà. Tuttavia ciò non significa che chi soffre di dislessia sia meno intelligente degli altri. Anzi, il fatto che il suo cervello funzioni in un modo un po’ diverso lo facilita nel trovare soluzione originali ai problemi, lo rende creativo e vivace. Non a caso, numerosi dislessici si sono distinti in campo artistico e scientifico.

Il neuroradiologo Jonathan H. Burdette, del dipartimento di bioingegneria della Wake Forest University presenta la propria ricerca il 2 dicembre 2008 al convegno annuale della Radiological Society of North America (RSNA). Il primo studio sull’elaborazione multisensoriale nei pazienti che soffrono di questo disordine effettuato con tecniche di risonanza magnetica funzionale (fMRI) rivela che nelle menti dei lettori dislessici, le visioni e i suoni incrociano il proprio cammino in modo anormale.

I lettori dislessici sembrano elaborare le tracce sensoriali uditive e visive in modo differente dai lettori normali. Queste differenze potrebbero essere la causa della loro difficoltà a leggere.

La dislessia è una disabilità dell’apprendimento caratterizzata da difficoltà nel riconoscimento delle parole. Se le basi neurologiche del disturbo sono ancora poco chiare, studi precedenti hanno mostrato che chi soffre di dislessia non è in grado di distinguere i suoni nelle parole pronunciate.

Tuttavia, la lettura è un compito mentale complesso, che richiede una serie di interazioni fra aree del cervello che controllano l’elaborazione uditiva, visiva, del linguaggio e della memoria. La lettura, nelle parole di Burdette, è fondamentalmente un processo multisensoriale, e l’associazione fra suoni e lettere ne è un passo importante.

Burdette e colleghi hanno sottoposto a esami di fMRI 30 lettori dislessici e 30 normali, facendo loro eseguire tre esercizi: uno di natura uditiva, uno visivo e uno multisensoriale. I ricercatori hanno scoperto che durante il compito uditivo i dislessici mostravano un incremento di attività nel percorso visivo del cervello.

Anche in Italia la sensibilizzazione sul tema della dislessia sta aumentando notevolmente producendo numerosi studi sul tema.

Un gruppo di ricercatori dell’Istituto Scientifico “Eugenio Medea – La Nostra Famiglia” di Bosisio Parini e della facoltà di Psicologia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, guidati dalla Dr.ssa Cecilia Marino dell’IRCCS Medea, hanno confermato, studiando 121 famiglie di bambini italiani con dislessia, l’origine genetica della malattia .

Lo studio ha almeno due importanti implicazioni.

La prima è la conferma di un dato recentemente suggerito da un gruppo di ricerca anglosassone, che aveva individuato in bambini americani il coinvolgimento del cromosoma 15 nella dislessia.

La seconda implicazione è che quest’area del genoma risulta in grado di influenzare la suscettibilità alla dislessia indipendentemente dalle caratteristiche culturali dei diversi Paesi in cui un bambino può trovarsi a vivere. Pertanto, indipendentemente dal grado di difficoltà grammaticali e dalle regole di lettura della lingua a cui un bambino viene esposto, l’area cromosomica indagata dagli studiosi sembra essere tra i ‘colpevoli’ del disturbo.

Gli studi condotti negli ultimi anni su famiglie di dislessici e sui gemelli confermano in buona misura la predisposizione genetica della dislessia evolutiva. Un risultato concorde fra i vari studi è infatti l’aumentata probabilità per un bambino che ha un genitore o un parente stretto con problemi di lettura di avere a sua volta problemi nell’imparare a leggere.

L’unitarietà dei processi che conducono alla dislessia, dimostrata su base genetica dal gruppo dell’Istituto Scientifico Eugenio Medea, è a sua volta in accordo con alcuni studi di funzionalità dell’encefalo precedentemente svolti al San Raffaele, nei quali si mostrava che adulti con dislessia appartenenti a culture diverse mostravano le stesse modalità di attivazione cerebrale anomala durante la lettura di parole relative alle loro specifiche culture linguistiche.

I ricercatori dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù in collaborazione con i colleghi dell’istituto Santa Lucia di Roma sono giunti alla conclusione che all’origine della dislessia, uno dei più comuni disturbi del linguaggio, ci sarebbe una disfunzione del cervelletto .

Le cause della dislessia si trovano anche qui, in un difetto nei ”magazzini della memoria” nei quali vengono custodite tutte le informazioni alla base di comportamenti automatici, come imparare a guidare l’automobile, a sciare, ad andare in bicicletta, o imparare a leggere.

Secondo il gruppo italiano coordinato dal neurologo Stefano Vicari, aumenta il quadro delle possibili cause all’origine della dislessia. Accanto ai problemi di linguaggio e a problemi visivi, a provocare la dislessia può essere un difetto del meccanismo di apprendimento legato alla cosiddetta ”memoria inconsapevole”.

Grazie all’utilizzo della risonanza magnetica funzionale, i ricercatori hanno analizzato il comportamento dei pazienti di fronte ad una sequenza motoria che appariva su di un monitor.

La sequenza all’inizio era casuale, ma poi procedeva secondo un ordine prestabilito che gli adulti non dislessici erano in grado di apprendere, mentre i dislessici non riuscivano ad imparare la sequenza. Mentre eseguivano un semplice compito di apprendimento di un automatismo (come schiacciare, su una tastiera, lettere corrispondenti a determinati colori che appaiono sul display del computer), il cervelletto si comportava in modo diverso nei due gruppi di persone.

In quelle in grado di leggere senza problemi il cervelleto si ”accendeva” solo durante la fase di apprendimento; nel gruppo dei dislessici restava sempre acceso. Questo significa che nel primo gruppo di persone il cervelletto lavorava soltanto nel tempo necessario ad apprendere, quindi le informazioni venivano trasferite e immagazzinate in un’area del cervello chiamata ”nucleo caudato”.

Nel gruppo dei dislessici, invece, il cervelletto continuava a lavorare senza sosta, senza mai ”spegnersi” e di conseguenza le nuove informazioni non venivano mai immagazzinate. Di fronte allo stesso compito, quindi, il processo di apprendimento ricomincia daccapo perché le nuove informazioni non vengono mai immagazzinate.

Da qui, l’ipotesi che un malfunzionamento del cervelletto impedisca ai dislessici, che hanno peraltro un quoziente intellettivo nella norma, di imparare i processi di automatizzazione, come il linguaggio e la lettura.

Tutti gli studi attuali sono accomunati dal ritenere la dislessia una conseguenza di alcuni errori di percezione dei segni grafici propri della scrittura, di associazione tra tali segni e i suoni che ad essi corrispondono, o di un difetto della capacità attentava; e percezione ed associazione tra simboli e suoni sono in buona misura influenzate da fattori genetici.

La dislessia colpisce in Italia il 4% della popolazione e per essere curata efficacemente richiede una diagnosi precoce e un programma riabilitativo tempestivo in età pediatrica.

Invece, ancora oggi, si tarda nelle diagnosi, mentre riconoscere subito i segnali e cominciare presto una terapia appropriata (con logopedia o attraverso processi di automatizzazione) garantisce risultati migliori. Gli studi recenti aprono la via allo sviluppo di nuove procedure diagnostiche e riabilitative che tengano conto della complessa e articolata origine del disturbo.

Un’importante sfida nell’immediato futuro è rappresentata dal riuscire a comprendere esattamente quali componenti della dislessia siano determinate dai geni identificati. Questo significa anche comprendere quali funzioni di percezione e di analisi psicologica sono influenzate dalle varianti genetiche, che, si spera, possano essere identificate dalla ricerca scientifica.

“Dislessia: aspetti eziologici e fattori ambientali”, tratto in data 04-05-2010 da http://www.opsonline.it “Obiettivo Psicologia. Formazione, lavoro e aggiornamento per psicologi”